VirtuaVerse. Si puó ancora parlare di fantascienza se il cyberpunk diventa retrofuture?
Amplificatori, cavi, floppy disk, modem 56k, videogiochi cabinati, stampanti ad aghi… i cimeli della rivoluzione digitale vengono eletti a totem, in una dialettica tra vecchio e nuovo che è da sempre parte della poetica cyberpunk, ma che in VirtuaVerse ha la forma di un inedito futuro vintage, in un opera che è soprattutto un atto d’amore verso l’estetica della generazione passata.
Rassicuriamo subito gli amanti del genere (noi compresi), nonostante il titolo da clickbait, la risposta è ovviamente sì. Ma è anche vero che la fantascienza, negli ultimi tempi, col raggiungimento e superamento di molte delle sue previsioni, ha dovuto cambiare narrazione, obbligandoci a nuove riflessioni sul tema. Oggi, nel 2020, data sci-fi per definizione (Blade Runner (1982) settava il suo universo nel 2019) la fantascienza non è più usata come speculazione sul futuro ma prende parte ad una riflessione critica sull’attuale (come la ben nota serie TV Black Mirror), mentre il tema fin ora astratto della perdita dell’umanità diviene trauma per la perdita del mondo passato. E se la fantascienza dismette i panni di araldo dell’avvenire, finendo per somigliare così tanto al nostro presente fino a trapassarlo è perché il suo immaginario, coi suoi stilemi ormai codificati, ha ormai da anni colonizzato le nostre esperienze ed aspettative, trasformandosi in molti casi – ahimè – da fantasia a cruda realtà.
Se oggi esiste una nostalgia per la fantascienza “old school” (così come per il retrogaming in generale) ed un tentativo di ritornare alla sua estetica innocua ed ispiratrice, questa è sicuramente percepibile nella generazione di artisti digitali cresciuta tra gli anni ’80 e ’90. Consapevolmente o meno, essi sono stati testimoni della fine della Storia e dell’attualizzazione di ogni “fantascienza” grazie alla recentissima accelerazione tecnologica e biotecnologica senza precedenti. Al contrario della generazione Z, i nati negli ultimi decenni del XX secolo portano il ricordo indelebile del mito di una fantascienza positiva, alimentato da una produzione culturale che fu oggetto di culto, così come l’entusiasmo dell’essere stati pionieri digitali in un tempo in cui si poteva ancora ammirare la distopia con romantico distacco, ed in qualche misura anche desiderarne gli scenari per il proprio, fantastico, futuro. È su queste frequenze che si colloca anche VirtuaVerse.
Sviluppata da Theta Division (una software house indipendente composta da un piccolissimo team di tre persone, di cui due italiani, ne parleremo poi), VirtuaVerse è una “Avventura Grafica punta e clicca” di altri tempi ambientata in un futuro prossimo che è frutto di un immaginario di 30 anni fa. Oggetti, dinamiche sociali, luoghi comuni. Tutto in VirtuaVerse ci descrive una idea di mondo del futuro molto “fisica”, come se il mondo si fosse fermato bruscamente nel 1995 ed il progresso fosse continuato unicamente in verticale, tramite sovrastrutture, e non orizzontalmente, nel tempo. Questo approccio nostalgico al futuro è intenzionalmente perseguito dal team di sviluppo, e dimostra l’evoluzione del genere di cui parlavamo: lo scintillante metallo si scopre coperto da una patina di polvere da antiquario e il cyberpunk trasmuta lentamente in retrofuture: amplificatori, cavi, vecchi computer, floppy disk, modem 56k, videogiochi cabinati, stampanti ad aghi… i cimeli della rivoluzione digitale vengono eletti a totem, in una dialettica tra vecchio e nuovo che è da sempre parte della poetica cyberpunk, ma che in VirtuaVerse ha la forma di un inedito futuro vintage, in un opera che è soprattutto un atto d’amore verso l’estetica della generazione passata.
E VirtuaVerse si rivela infatti un titolo generazionale, a tratti estremamente personale, che vede i suoi sviluppatori richiamarsi ad elementi della loro adolescenza, alle loro esperienze e sogni. Ogni elemento di questo titolo è la celebrazione di un classico: dall’ambientazione, alla musica, alla grafica… fino allo stesso genere videoludico scelto, quello delle avventure point&click oramai dimenticate dalle grandi produzioni, ma pane quotidiano dei giocatori negli anni ’90.
Per chi non conoscesse il genere delle “Avventure Grafiche punta e clicca” si tratta di giochi in cui la narrazione è legata a doppio filo all’esplorazione dei fondali di gioco. Il protagonista si muove in mappe limitate nello spazio ma dense di informazioni, dove cercare, tramite puntatore del mouse, oggetti ed elementi indispensabili per risolvere puzzle, enigmi ed ostacoli. Spesso queste avventure sono zeppe di elementi comici, mentre il personaggio solitamente non “muore” ma siamo noi giocatori a “bloccarci” quando non riusciamo a risolvere gli enigmi (ci sono eccezioni a questa regola, ad esempio Beneath a Steel Sky (1994), Maniac Mansion (1987) o altre avventure della Sierra). Le Avventure Grafiche sono da qualche anno ritornate sulla scena come territorio di riconquista da parte di molte software house indipendenti. Questo sicuramente a causa della loro relativa semplicità tecnica, ma anche per la voglia delle nuove generazioni di sviluppatori (tra i 30 ai 40 anni), di emulare i titoli della loro infanzia.
In VirtuaVerse ci risvegliamo bruscamente all’ennesimo piano di un grattacielo popolare. La nostra ragazza, Jay, sembra essersi allontanata nella notte e, come se non bastasse, abbiamo sbadatamente calpestato il nostro “visore AVR” rompendolo. Col pretesto di ripararlo ci troveremo quindi a battere a tappeto la città sottostante, cercando anche notizie su Jay. Ben presto capiremo di più su come è strutturato il mondo in cui viviamo, così come verremo a conoscenza di ciò che rende Nathan, il protagonista, e pochi altri, diversi dalla massa di conformizzati alla “Realtà Permanente AVR”. Dopo un paio di peripezie di ambientamento la storia assumerà toni più eroici, e ci troveremo, come da copione, a combattere per una certa idea di uomo, di società e di progresso, contro la attuale sovra-struttura tecno-bio-politica al potere.
Come VirtuaVerse é un titolo in bilico tra passato e futuro, così lo stesso protagonista sembra essere un personaggio a metà, diviso tra il vecchio mondo (hardware, il reale) ed il nuovo (software AR, cloud). Non siamo in presenza di un eroe già formato bensì di un ragazzo che “vuole diventare un pirata” (informatico) e, proprio come con Guybrush Threepwood, non capiremo se siamo al cospetto di un tipo cool o di uno “sfigato”, un lamer. Purtroppo, forse proprio a causa del suo allineamento troppo neutrale se non quando addirittura contraddittorio, si percepiscono alcuni problemi nella caratterizzazione del protagonista. Dotato del carisma di un uramaki, Nathan è costantemente vittima del mondo in cui vive, mondo che comunque sembra disprezzare, un po’ a ragione ma anche un po’ per partito preso… Sfottuto dai ragazzini, non conosce la musica contemporanea, le cryptovalute, o le gare di droni, così come sembra ignaro di qualsiasi regola nella street life. Nathan sembra sempre vergine ad ogni situazione in cui capita, ma al tempo stesso ne esce sempre poco turbato. D’altro canto si veste da duro col cappuccio, ha una superbike, la sua ragazza è una ex-cantante ribelle strafiga che Matrix scansate, così come possiede una freddezza da far impallidire il più spietato dei killer in diverse situazioni. Situazioni trattate a volte in modo naif e superficiale… Manca, in Nathan, un feedback realistico alle conseguenze delle sue azioni, anche fosse un banale senso di colpa, o un richiamo di responsabilità. A volte, gesti estremi che comporteranno serio danno (es. una “overdose”) o persino la morte di personaggi secondari, passano senza un battito di ciglia, e questo è abbastanza disturbante, a livello di script. Pensiamo che il problema stia nel fatto che, in Nathan, non sia stato sviluppato un sistema morale coerente e non si capiscono quindi chiaramente le sue motivazioni personali o per cosa stia realmente lottando. Forse un problema con la traduzione italiana? Similmente, è difficile empatizzare anche con altri personaggi, che risultano a conti fatti un po’ bidimensionali. No, non soltanto perché disegnati su sprite (risate finte qui).
Il gioco ci mette comunque poco a dissipare i dubbi sulla sua costruzione narrativa grazie all’uso di un umorismo diretto e funzionale. Giustificato dal suo essere cartoon, VirtuaVerse sa come prendersi poco sul serio e sdrammatizzare. La storia scorre, gli enigmi sono ben pensati, seriamente divertenti, difficili al punto giusto e variegati. Ci troveremo spesso a ridere da soli, così come ad esultare per la soluzione ad un enigma. In breve, VirtuaVerse è uno tra i migliori point&click moderni, e sicuramente tra i più eleganti e nella sua realizzazione.
La abbiamo lasciata volutamente alla fine ma è impossibile non parlare della direzione artistica. Entrambi i comparti audio e video sono realizzati con maestria e stile d’autore. In primo luogo la pixel art. Disegnata ed animata da Valenberg, artista già famoso per le sue rappresentazioni di un mondo cyberpunk al tubo catodico, ricco di riferimenti al Giappone, alla poster art, all’underground musicale, fatto di toni acidi blu e viola, fantasmi led riflessi nella pioggia e odore di street food! Theta Division deve moltissimo al suo illustratore, e lo sa, realizzando un videogioco praticamente appoggiato sul suo riconoscibilissimo immaginario. Non è da meno la colonna sonora, forte dell’esperienza di Vittorio D’Amore, in arte Master Boot Record, capace di ricreare un suono sintetico avvolgente, presente e memorabile. Musica forse a volte un po’ ripetitiva, ma solo per colpa nostra nel non riuscire a risolvere gli enigmi in tempo umano 🙂 Il sound design e la masterizzazione meritano un’ulteriore nota di merito: ascoltare in cuffia VirtuaVerse è un piacere e ve lo consigliamo per scoprirne l’estrema cura audio.
Ultimo, ma non meno importante in un gioco sviluppato interamente da (quasi) solo tre persone, è il coder, Alessio Cosenza, aka Elder0010, a dimostrazione che troppo spesso ci dimentichiamo che anche l’Italia può dare molto allo sviluppo di videogiochi. Se il gioco è fitto di citazioni ed easter egg a tema retrogaming e “retrocoding” è sopratutto merito suo. Lungi dal farne un discorso di orgoglio nazionale, anzi, piuttosto il contrario… a ricordare come chi lavora in questo campo sia ancora ignorato dalla “industria culturale” nostrana, e come meriti invece, ad oggi, nel 2020, nel futuro, un riconoscimento maggiore. Ma per il momento, grazie, Theta Division, per VirtuaVerse.