La curiosa invasione del fashion nei videogames
Particolarità del fashion è il suo essere legato alla sfera della libertà dell’espressione personale e quindi alle “forme” distintive nelle quali una persona, un giocatore, si identifica, si rappresenta e vuole essere percepito.
Su Animal Crossing New Horizons è partito un fan project chiamato “Animal Crossing Fashion Archive” con l’obiettivo di convincere i più grandi designer di moda a creare abiti esclusivi per gli avatar dei giocatori. I primi due grandi nomi ad aderire all’iniziativa sono stati Marc Jacobs e Valentino, che hanno disegnato alcune personali versioni digitali dei loro capi. Dopotutto, il gioco Nintendo ha ricevuto un’accoglienza da record che l’ha spinto sotto i riflettori anche della stampa non specializzata e fatto conoscere a moltissime persone distanti dal mondo dei videogiochi. Il suo successo pop, unito alla natura sandbox (possibilità di estrema personalizzazione) ed al suo design “cute” e accattivante, ha convinto un intero sotto-mondo di utenti a cimentarsi come fashion designer ed interior designer nel gioco. È bastato poco al marketing delle grandi fashion houses per indovinare mossa giusta e regalare agli utenti quello che volevano.
La notizia ha fatto subito il giro del mondo, ma il mondo dei videogiochi nella sua storia ha spesso provato a confrontarsi con la moda e, come spesso accade per le avanguardie, lo aveva fatto in modo indipendente. I Dress Up Games sono un genere di gioco nato verso la metà degli anni ’90 quando in Giappone iniziarono ad apparire delle versioni computerizzate delle “paper dolls” ovvero quel gioco per bambini fatto di sagome di carta a mo’ di vestiti intercambiabili. Il gioco consisteva nel vestire e svestire (drag and drop col puntatore del mouse) dei modelli-manichini in una specie di versione computerizzata di Gira La Moda. Il sistema si chiamava KiSS.
Nei primi anni 2000, direttamente collegati alla pratica della creazione degli avatar nelle chat room, esplose il fenomeno StyleDollz.com e DollzMania.com. A quei tempi internet era ancora uno spazio dedicato alla libertà di espressione e all’anonimato e la creazione di un proprio avatar toccava i profondi meccanismi psicologici propri dell’identificazione. Per questo, le “Dollz” furono un fenomeno virale e sociale. Il gioco funzionava in modo simile ai precedenti Dress Up Games ma gli utenti potevano disegnare su Photoshop gli elementi delle proprie Dollz per usarle poi online. Questo permise una estrema caratterizzazione delle Dollz che spaziava dal pop al fantasy, includendo praticamente tutte le sottoculture giovanili di quegli anni. Le Dollz ricordavano vagamente per aspetto la linea di bambole Bratz della MGA Entertainment, concorrente della più famosa Barbie della Mattel che successivamente produsse Barbie Myscene (2003) emulando il genere Dress Up ma senza troppo successo.
Nel 2007, l’introduzione di Adobe Flash nei browser permise una evoluzione tecnica del genere nella popolarissima serie di giochi Koreani Roiworld che tenne impegnata una nuova generazione di milioni di utenti specialmente in Asia (malgrado le mie ricerche non ne ho trovato traccia alcuna su Wikipedia! Ma per amore della conoscenza potete trovarne una collezione qui). Contemporaneamente, come a segnarne il passaggio generazionale, la lettera Z sparì dalla parola “Dollz” ma sarete forse sorpresi di sapere che il fenomeno delle Dolls non si è arrestato ed è tuttora attivo su internet, anche se come fenomeno di nicchia, e si è aggiornato agli stili contemporanei.
Nello sviluppo professionale di videogiochi, il design dei costumi e dei vestiti è semplicemente parte del lavoro di squadra. Ogni titolo che abbia un Art Department serio ha da sempre un team dedicato al character design, e solitamente è loro la responsabilità di immaginare e disegnare anche i costumi dei personaggi; questo ha portato a molti ottimi giochi dai pessimi costumi… Ma oltre ai sottogeneri underground ed al lavoro dei team di sviluppo, la recente incursione attiva dei grandi brand della moda, in un mondo che è sempre stato classificato agli antipodi del cool, è una novità degna di analisi.
Col rischio di prenderla un po’ larga, sono necessarie alcune premesse. Il fenomeno del branding nei videogiochi è pratica comune da quando questi ultimi hanno iniziato ad essere fenomeno di massa, ovvero con le prime generazioni di console, ma ne troviamo traccia anche nei titoli Arcade. Spesso si trovava in giochi di sport o di corse ed il motivo era chiaramente collegato al fatto che i brand erano già sponsor in real life degli atleti o delle squadre in gioco. Il primo gioco di calcio con un cartellone Adidas a bordo campo fu Fifa International Soccer (1994) ma a causa dello scarso dettaglio possibile sui modelli poligonali dei giocatori gli sponsor sulle maglie comparvero solo da Fifa 2002. Tra i racing games, Gran Turismo (1997) è uno dei primi giochi che includesse una grande varietà di vetture reali. Al tempo, i giochi di corse non erano destinati unicamente agli amanti del genere ed ogni novità era percepita dai videogiocatori semplicemente come un altro titolo da provare. Le innovazioni tecniche di Gran Turismo attirarono milioni di giocatori curiosi ma estranei al mondo dei motori, educandoli a riconoscere decine di modelli di automobili. Prima di Gran Turismo, solo Need For Speed (1994) ci aveva provato. I primi marchi (Shell, Bridgestone e Garelli) sono invece visibili a bordo pista addirittura nel 1985 con Hang On della Sega, mentre nel 1986 tutti hanno guidato la Ferrari rossa di Out Run.
Se negli esempi qui sopra tutto funziona, certamente, quando fine a sé stesso, la pratica del product placement nei videogiochi può produrre effetti grotteschi. Pensiamo al primo piano sulle lattine di Monster Energy nell’ultimo titolo di Hideo Kojima, Death Stranding (2019), alla Mercedes giocattolo grigio topo di Mario Kart per Switch, o ai cartelloni per la campagna elettorale di Barack Obama in Burnout Paradise (2008). Fortunatamente questa pratica terrificante è ancora molto rara… Spesso i videogiochi scelgono piuttosto di restare liberi e, se serve riprodurre un ecosistema di marchi nel gioco, ne immaginano e disegnano di finti.
Ma la moda opera a livello più sottile di un semplice marchio su un cartellone o il product placement di una lattina. È spesso invisibile, nel senso che non si pensa mai troppo al fatto che se un character ci piace probabilmente è anche a causa del suo outfit, ma è indispensabile per aggiungere informazioni indispensabili a comprendere i personaggi in gioco. Ritornando pian piano verso l’argomento, incrociamo il mondo dello street-style: la leggendaria serie Tony Hawk Pro Skater introdusse la presenza di loghi noti nella sottocultura del surf e dello skateboard californiano. Non si trattava ancora di veri e propri outfit bensì di cappellini e magliette dallo stile molto basic, ma dai primi anni 2000 la “customizzazione”, ovvero la personalizzazione dello stile del proprio personaggio attraverso una ampia scelta di vestiti, iniziò ad essere fondamentale nei videogames. Sul web, è degli stessi anni il fenomeno DollzMania che abbiamo visto sopra, ma sono significativi anche titoli come The Sims (2000) o Grand Theft Auto 3 (2001) e St. Andreas (2004) con l’introduzione della possibilità di acquistare vestiti per il personaggio addirittura presso negozi presenti nella mappa di gioco. Le possibilità di personalizzazione si evolsero di pari passo con la grafica e alla possibilità di aggiungere dettaglio ai modelli poligonali. Ben presto, sbloccare elementi cosmetici dal design complesso e curato come ricompensa per il raggiungimento di traguardi di gioco divenne pratica comune, e trovò enorme apprezzamento dei giocatori.
Questo continuò fino all’introduzione da parte della Valve, nel 2012 circa con Team Fortress 2 e CS:GO, del concetto di skin, ovvero vestiti (in realtà i primi design per skin riguardavano unicamente le armi) dal design speciale, non più ottenibili tramite missioni di gioco ma unicamente tramite transazioni economiche reali. Il fenomeno coinvolse quasi la totalità dei titoli multiplayer e i giocatori iniziarono a pagare per poter ottenere gli elementi estetici desiderati con lo scopo di distinguere il loro avatar dalla massa degli altri players. Tali elementi cosmetici si rinnovano ad ogni “stagione” del gioco e sono acquistabili presso lo shop del gioco. Come vedete, ci stiamo avvicinando a logiche di mercato della moda.
La moda è la nostra armatura per sopravvivere alla realtà quotidiana.
Bill Cunningham
Louis Vuitton è stato il primo marchio del lusso a realizzare le skin per un videogioco, e lo ha fatto in occasione del decimo compleanno di League of Legends e dei campionati mondiali del 2019 svolti in Europa, e a Parigi. Nicolas Ghesquière non era nuovo di queste iniziative visto che già nel 2015 aveva utilizzato Lighting, l’eroina digitale di Final Fantasy XIII, come new face per la collezione primavera-estate. Altre case di moda proveranno a strizzare l’occhio ai videogiocatori ma spesso con risultati estemporanei, limitandosi alla creazione di un contenuto “a tema videogiochi” di scarso valore, sicuramente causa incompetenza verso l’argomento e scarso vero interesse verso le profonde implicazioni possibili. È questo il caso di Gucci col progetto Gucci Arcade o di Burberry con l’orribile gioco web B Bounce.
Particolarità della moda è il suo essere legata alla sfera della libertà dell’espressione personale e dell’estetica, e per definizione questo si contrappone a concetti di dominazione e forza (comuni a dire il vero in quasi la totalità dei videogames, seguirà un articolo a questo proposito). La moda ha quindi a che fare con le “forme” distintive nelle quali una persona, un giocatore, si identifica, si rappresenta e vuole essere percepito. Anche le skin nei videogiochi sono infatti oggetti puramente cosmetici, senza caratteristiche che possano influenzare i punteggi del personaggio. Esistono titoli che abbinano diversi stili di abbigliamento a diverse capacità del personaggio, ma sono titoli single player dove è assente l’interazione e il confronto con altri giocatori. Ad esempio in Zelda, Breath Of The Wild (2017) la capacità di viaggiare in ambienti caldi o freddi dipende dal tipo di vestito indossato; in Disco Elysium (2020) ogni scelta in fatto di abbigliamento è associata ad un marcato cambio di statistiche del protagonista ed addirittura ad un suo diverso allineamento politico! Ma il punto è che per quanto possa essere esclusiva nei prezzi, la moda si sforza da sempre di essere inclusiva verso il pubblico. Per questo in multiplayer le skin restano una variante unicamente cosmetica e non modificano le statistiche dei giocatori e le loro capacità di vittoria in multiplayer. No pay for win. Per fortuna.
Il motivo di questo nuovo interesse è comunque chiaro: l’industria dei videogames muove ormai più soldi del cinema e l’attenzione dei brand si è spostata naturalmente verso i consumatori di questo mondo, soprattutto rampolli alto spendenti cinesi, golosi sia di moda europea che di videogiochi, soprattutto le donne cinesi, che sono grandi giocatrici. Honour of Kings (2015) della TenCent è il gioco mobile più redditizio al mondo (nel 2018 ha incassato circa 2 miliardi di dollari), con il 95 per cento della spesa proveniente da utenti iOS in Cina. E il mercato vuole il suo star system. I brand si associano ai grandi eventi e alle celebrità ed è normale che sponsorizzino ora anche fenomeni planetari di e-sport e le nuove celebrities. In principio erano brand legati alla tecnologia e all’informatica, poi arrivarono i brand di “gaming” (Logitech G, Asus…) ed ora vediamo un crescente interesse anche da parte della moda o case automobilistiche (Mercedes) che finanziano eventi di e-sport per marchiare i nuovi “vincenti”. Questo è certamente un po’ triste per chi amava il mondo dei videogiochi inteso come alternativa culturale, ma possiamo anche vederlo come la vittoria di un linguaggio rivoluzionario che ha meritato il suo successo planetario.
Ma le nuove celebrities dei videogiochi non sono solo i giocatori professionisti, gli youtubers o gli streamers. Le nuove celebrità sono i personaggi stessi: migliori delle persone reali, rappresentano solo ideali positivi, e nei loro render 3D sono perfetti indossatori (soprattutto i personaggi asiatici). Tutti amiamo gli eroi che interpretiamo quando giochiamo; ci fanno sentire coraggiosi, curiosi, o ci portano in mondi che non potremmo mai vivere nel nostro quotidiano… ed il modo più diretto per celebrarli e sentirsi, almeno per un attimo, come loro, è quello di vestirne i panni anche nella vita reale. Ed è questo l’obbiettivo ultimo dell’invasione del fashion nei videogiochi: il fenomeno del cosplay. Come notava Teddy Dief su questo articolo, basta un occhiata alla massa di partecipanti al PAX, al Comic-Con, o al Twitch-Con, per vedere come tutti provano a ricreare il look dei propri eroi, ma è difficile se non impossibile indossare questi look fantastici al di fuori di queste occasioni speciali, a lavoro o a scuola. È certamente bizzarro vedere come l’armatura e la spada di Lighting di Final Fantasy siano state sostituite da una giacca rosa e una borsetta, ma per una volta è il nostro eroe a mettersi nei nostri panni, e non il contrario. E va da sé che nella vita vera una giacca sia molto più indossabile (e acquistabile) di una corazza di piastre! Bill Cunningham un giorno disse: “La moda è la nostra armatura per sopravvivere alla realtà quotidiana”. Tutti vogliamo indossare l’armatura del nostro eroe. Ora possiamo.
Ci siamo dimenticati qualcosa di importante nella nostra piccola riflessione sul fashion e branding nei videogiochi? Feel free di farcelo sapere nei commenti qui sotto 🙂